Li conosciamo soltanto per i furti e le elemosina: sono gli zingari, popolo senza patria e con una lunga storia alle spalle.
Gli zingari cristiani si sono incontrati per una settimana di festa a cavallo del 24 maggio nella cittadina di Saintes-Maries-de-la-Mer, piccola perla della Camargue, come ogni anno. Da sempre i popoli nomadi dispersi fra le nazioni dell’Europa occidenta-le confluiscono qui, per venerare la loro santa protettrice, una “santa zingara”, e la sua statua nera, custodita nella cripta della cattedrale di questo soleggiato borgo costiero, e bagnarla nelle acque turchesi del Mediterraneo. Col tempo le variopinte e rumorose carovane di carri trainati da cavalli o da uomini sono diventate roulottes, automobili a volte di lusso, a volte (più spesso) bidoni traballanti, ma lo spirito è rimasto sempre lo stesso, quello di festeggiare, cantare,al ritmo del flamenco, conoscersi e per una volta, una volta soltanto in un anno, sconfiggere le distanze e la dispersione, e ritrovarsi uniti, come un popolo, non più soltanto una scomoda minoranza, ma come una vera “nazione”.
Scrivere di questa colorita ricorrenza è solo un piccolo tentativo di suscitare interesse verso un popolo che vive in mezzo a noi, ma di cui ignoriamo quasi completamente se non l’esistenza, sicuramente le abitudini, l’identità. Dovunque vivano, infatti, i nomadi sono sempre circondati da un alone di diffidenza e incomprensione (sentimento di solito ricambiato, ma non è una ragione valida per “chiudere gli occhi”e rinunciare a capire).
Per cominciare, sono i “sedentari” a partire con un giudizio negativo, a priori.
Basta aprire un dizionario per rendersene conto: i semplici termini “nomade”, o “vagabondo”, assumono immediatamente nelle nostre lingue una connotazione negativa, anzi spregiativa. E storicamente i popoli nomadi rappresentavano crudeltà, furti e razzie, qualcosa di cui avere paura, orde di “barbari” provenienti da terre sconosciute pronti a mettere a ferro e fuoco le città d’Europa.
In realtà, più che il ricordo di passate razzie è la paura di una così diversa visione del mondo, dalla paura che ciò che ci sembra di possedere di diritto sia in realtà una fragile convenzione, se la maggior parte dei popoli nomadi con cui abbiamo avuto a che fare erano dediti soprattutto ad attività pacifiche ed innocue.
Oggi non tutti lo sanno, ma i nomadi sono stati prima di tutto artigiani, allevatori e commercianti di cavalli, attività favorita e resa necessaria dal loro incessante andare (una passione che oggi si è trasformata in amore per le automobili), e celebri musicisti.
La proverbiale cialtroneria servì agli zingari ad insediarsi nell’Europa cristiana: false storie che li ritraevano come cristiani d’Egitto perseguitati dai musulmani; molti falsi di bolle imperiali e papali che obbligavano le autorità locali ad accettarli.
D’altronde è sempre per una serie di equivoci che nasce buona parte della tradizionale ostilità europea nei loro confronti: venivano infatti scambiati o equiparati ai saraceni. È con l’età moderna, però, che iniziano le più dure persecuzioni, che hanno raggiunto il culmine nella seconda guerra mondiale. Ma oltre alle persecuzioni, è il tentativo di assimilazione da parte delle popolazioni stanziali a minacciare l’identità nomade. E dei princìpi, dei modi di vedere la vita, radicalmente diversi. Ai nostri occhi, sono deprecabili, oltre alla tendenza a commettere furti (e attribuirla, generalizzando, a tutto un popolo), l’incapacità di lavorare, di “metter su casa”, la apparente sporcizia, il fatto di non mandare i figli alla (nostra) scuola…
D’altra parte siamo noi, dal loro punto di vista, a compiere abitualmente azioni viste come immorali. Il lavoro salariato per esempio è vissuto dai nomadi che sono o sono stati costretti a farlo, come un furto di tempo, qualcosa che stravolge i ritmi naturali che essi hanno e che si sentono in diritto di avere. In molti Paesi si è tentato di integrarli in questo modo, come in quelli dell’ex Europa comunista, il risultato è stato fallimentare: altissimo grado di assenteismo dal lavoro, e bassissima produttività.
Quanto ai furti, bisogna considerare che essi hanno un concetto molto più blando di proprietà privata (i beni sono in genere spartiti fra tutti i membri dei clan) e, se questo non giustifica nulla, dal loro punto di vista, anche la nostra proprietà, ad esempio della terra, e il fatto di sfruttarla per ricavarne profitto, di spremerla fino all’osso, potrebbe essere vista come un sopruso.
C’è anche una tendenza opposta, quella di idealizzare il “popolo del vento”, attribuendogli caratteri romantici, libertari (da cui i bohémiens), che si traducono in una serie di stereotipi e di semplificazioni. Primo fra tutti, anche se può sembrare sorprendente, lo stesso nomadismo. Oggi moltissimi zingari sono di fatto sedentari, e molti lo sono tradizionalmente, e vivono in baracche e in case normali. Nell’Europa dell’Est esistono numerosi “quartieri zingari”. È diffusa inoltre la convinzione che ci sia un “popolo zingaro”, mentre questo termine, come altri affini (gitano, gypsy, camminante…) sono stati attribuiti dai “gagè”, i non zingari, a gruppi così diversi da non poter certo essere definiti come un unico popolo. Cambiano le tradizioni, le lingue, di gruppo in gruppo, conservando tracce degli idiomi dei paesi che ha attraversato, così come le religioni, che, sotto una pellicola di cristianesimo, o islamismo, conservano tracce di miti e di culti antichissimi.
Resta il problema di un popolo disadattato, che i tempi stanno spingendo a rendere simile agli occidentali senza tuttavia integrarsi: il primo passo verso una soluzione è, prima di tutto, conoscere.
-Marco Ranocchiari-
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